Josephine Mallister

Conoscenze Religiose 8

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    I
    l Fabbro.

    Simbolo di forza e vigore. La statua ne ritraeva un uomo possente e dalle mascoline fattezze. L’estrema espressione delle fatiche dei mortali. Senza impegno o sforzo alcuno traguardo non sarebbe mai stato raggiunto. Il divieto dell’accidia, l’ossimoro alla nullafacenza. Ogni patriarca invocava la santa protezione del Fabbro, non solo come buon auspicio per la propria attività ed affari, ma per infondere nella giovane e svogliata prole l’operosità e la brama di successo. Non si badava al traguardo ma al lungo percorso irto di pericoli da affrontare per raggiungerlo. Ed il Fabbro, protettore dei lavoratori, elargiva benedizioni con il suo martello affinché le loro membra non fossero mai stanche e rinvigorite al solo pensiero del premio. Arrivava la semina, dopo il duro lavoro nei campi, e solo alla fine la raccolta dei prosperi frutti. Solo dopo tanto lavoro e dedizione. Sudore, non lacrime, era ciò che traspariva dalla marmorea e silenziosa statua. Ben diversa dalle lacrime di misericordia della Madre o dal perfetto incarnato della Fanciulla. Il viso del Fabbro era solcato da profonde rughe, un’espressione austera quasi intimidatoria. Mani sporche di fuliggine e dita ustionate dal fuoco. C’era vita vissuta in una statua che doveva rappresentare il Divino. Dotato di martello, a testimonianza di uno dei lavori più umili dei mortali, così il Quinto Volto del Dio si manifestava ai suoi devoti. Avvolto in comune vesti, ricolmo di cicatrici e sporco di fuliggine. Era come se si fosse incarnato nella sua stessa creazione, i mortali. Senza timor di apparire misero o debole, così il Dio dai Sette Volti si manifestava ai pii fedeli. Un culto indirizzato senza ombra di dubbio ai più poveri.

    C’era nobiltà anche nel lavoro. Patrono del lavoro e protettore dei lavoratori, elargiva premi e ricompense solo a chi sacrificava la propria esistenza per il bene comune. Dal bottegaio al pescatore, anche le mansioni più umili erano finalizzate all’unione della comunità. Tramite il lavoro i fedeli di basso ceto sociale trovavano la loro nobiltà. Concetti che i nobili, abituati a non macchiarsi mai d’olio o di carbone le dita, non potevano di certo comprendere. La perseveranza nel raggiungere una meta, con profusi sforzi di fronte alle comuni e quotidiane cadute. Il Fabbro donava speranza, la possibilità di percorrere con dignità anche la vita più misera. Un modo per inserirsi in un universo che per carenza di natali sembrava averli esclusi a priori. Ed invece nel Fabbro si rievocava l’unità, la comunione. Volto dai molteplici nomi: “Il Contadino” dagli agricoltori, “Il Pescatore” dagli uomini di mare, “Il Carpentiere” dai mastri costruttori, “Il Ciabattino” dagli artigiani. Nel corso dei secoli, dagli albori della Fede dei Sette Dei, il Fabbro aveva mutato così tanto aspetto e nomea da diventare quasi una mutaforma. Se lo Sconosciuto, il cui volto nessuno conosceva perché avvolto nel mistero, per il Fabbro si prefigurava un viso familiare e vicino al cuore delle comuni genti. I più poveri identificavano la Divinità nella caparbietà del nonno che arava ancora i campi a veneranda età o alla determinazione del padre che teneva la bottega aperta fino al calar dell’astro. Incarnava lo spirito di sopravvivenza, oltre alla nobiltà d’intenti e d’azione.

    Gli agricoltori pregavano il Dio affinché il raccolto fosse buono nel mese delle messi, il carpentiere invocava la benevolenza del Dio per mantenere stabile una struttura appena progettata e costruita, il marinaio sussurrava al Dio affinché le maree non fossero violente e le navi giungessero al porto sane e salve, l’artigiano pregava il Dio in modo da poter vendere quanta più merce possibile e sfamare la propria famiglia. Si trattava di vita quotidiana, ben lontana dalle glorificazioni degli altri sei volti del Dio. Non esisteva volto più vicino ai mortali, se non la statua del Fabbro. Non era infrequente che ai suoi piedi i devoti lasciassero gli strumenti del mestiere per attendere la sua benedizione nel giorno di riposo, per poi andarli a riprendere con il benestare del Septon per iniziare una nuova settimana di lavoro. I più devoti indossavano perfino ciondoli in ferro con l’effigie del martello del Fabbro.

    Lady Josephine Mallister aveva letto così tanti scritti in merito, soprattutto per comprendere come mai fosse giunto il “Fabbro” e non il “Carpentiere”, il “Pescatore”, il “Contadino” fino ad epoca contemporanea. I trattati di teologia, richiesti a Septon Mychael, s’intrecciavano con quelli di Storia ed Antropologia provenienti direttamente dalla biblioteca di Grande Inverno. Secondo la leggenda, fu proprio il Fabbro a conferire la conoscenza della lavorazione del ferro agli andali. Motivo di lustro e di vento per l’intera stirpe, che poi aveva permesso una rapida conquista del continente di Westeros, dopo aver abbandonato le colline di Essos. Una spiegazione plausibile, a cui la stessa Lady di Seagard era giunta.

    Durante la giornata del Fabbro i lavori manuali ed agresti erano prediletti sopra ogni altra attività. Perfino i nobili si dilettavano in tali pratiche: Cavalieri che partecipavano ad un palio sui ciuchi, Lord che impugnavano aratri per una gara del solco, nobiluomini che s’iscrivevano ad una gara di forgiatura e raffinate Lady che tessevano il più bel vestito. Per un giorno l’ordine naturale delle cose veniva sovvertito. I nobili erano impegnati nelle gare di cucito o nella raccolta nei campi, per riconquistare quel legame con la terra ormai perso, mentre i poveri si concedevano un attimo di pace. La servitù si godeva il castello dei padroni, senza dover servire, rassettare o pulire come ogni giorno. Ovviamente non potevano mancare le benedizioni di Septon e Septe per onorare il giorno del Fabbro. Gli articoli realizzati dai nobili venivano venduti a prezzi convenienti alle comuni genti, che potevano per un giorno sperperare i propri risparmi senza doversene preoccupare. In una grossa cerimonia finale il Septon benediva gli attrezzi del mestiere degli umili lavoratori augurando sette anni di raccolti prosperi e lavoro ben retribuito a tutto il feudo.

    In tutte le strade si sollevava un inno:

    - ‘O Gloriosissimo Fabbro, modello di sana laboriosità, aiutami a santificare il lavoro. Nella fatica intellettuale e in quella fisica, ottienimi sempre:
    di lavorare con coscienza, mettendo il dovere al di sopra delle mie inclinazioni;
    di lavorare con riconoscenza e gioia, considerando un onore il compimento del mio dovere nei confronti dell’Onnipotente Dio;
    di lavorare con ordine e pazienza, senza mai indietreggiare davanti alla stanchezza e alle difficoltà;
    di lavorare soprattutto con purezza di intenzione, pensando sempre che dovrò rendere conto del tempo perduto, dei talenti inutilizzati, del bene omesso. -



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    Competenza: Conoscenze religiose 8 - Sette Dei
     
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